Pochi lo considerano un semplice strumento di comunicazione, come il telefono o l’e-mail. Per Twitter è odio o amore: c’è chi non lo sopporta e chi invece non sopporta tutti quelli che non lo amano.
Nella prima categoria – quella dei critici o quantomeno degli scettici – rientra Irene Pivetti che, intervistata da Vittorio Zincone su Sette del 19 aprile, ha dato questa bella definizione del servizio di microblogging creato da Jack Dorsey: “Twitter è un social network per gente che ha poco da dire, ma lo vuole dire tante volte”.
Nella categoria degli entusiasti si può iscrivere invece Serena Danna che sul Corriere della Sera del 21 aprile critica il Politecnico di Milano perché ha deciso di proporre corsi solo in inglese, “ma non è capace di parlare la lingua del futuro”. E qual è questa lingua? Quella di Twitter, ovviamente. Una lingua in cui le università italiane non sembrano particolarmente versate, osserva Danna, come conferma lo scarso numero di follower dei loro account.
La lingua del futuro, insomma, è Twitter, altro che l’inglese. E se non la conosci sei uno sfigato senza domani. E il numero dei follower diventa la misura del successo nell’epoca del web 2.0, come l’Auditel era la misura del successo nell’epoca della tv 1.0.
Salvo scoprire poi – come rivela un altro articolo del Corriere della Sera, “Salve, sono un (ro)bot, un falso utente”, di Federica Cocco, 22 aprile – che dietro a certi account molto “autorevoli” e popolari non ci sono persone reali ma bot: software di intelligenza artificiale come quelli della Philter Phactory e di Weavrs, identità fittizie, falsi utenti che sanno usare bene la “lingua” di Twitter convincendo come pifferai migliaia di ingenui follower a seguirli. Che siano loro i veri sfigati?